I Detti Romani

In questa sezione scoprirai i detti più famosi di Roma e il loro significato

VECCHIO COME ER CUCCO

Questo detto viene usato quando ci si riferisce ad un oggetto ormai molto vecchio o ad una persona molto anziana, ma anche ad un concetto, ad un modo di pensare che si ritengono antichi e passati di moda.

Si pensa che il termine “cucco” derivi da “cuco”, un fischietto tra i primi giocattoli sonori dei tempi antichi.

Secondo un’altra versione, invece, il termine sarebbe una deformazione onomatopeica di Abacuc, uno dei 12 profeti d’Israele. Quest’ultimo, infatti, viene sempre rappresentato come un uomo anziano, pensieroso e dalla lunga barba.

Come er cacio sui maccheroni

Questo detto viene usato quando un abbinamento risulta perfetto o quando una cosa ne completa un’altra impeccabilmente.

Il detto deriva dal fatto che il cacio è un formaggio, utilizzato, ad esempio, nella “cacio e pepe”, tradizionale ricetta romanesca spesso fatta proprio con i maccheroni. Il cacio, i maccheroni li insaporisce, li rende succulenti, li completa e proprio da questo concetto di perfezione nasce il detto romano.

 

A chi tocca nun se 'ngrugna

La traduzione letterale è “a chi capita, non se la prenda, non reagisca”.

Un po’ una versione romanesca di “Oggi a me, domani a te”.

Il termine “grugno”, infatti, indica il muso dell’animale, mentre l’espressione “ingrugnarsi” (o ingrugnirsi) in italiano vuol dire “tenere il grugno, cioè assumere nel volto un’espressione corrucciata”.

In altre parole, l’espressione “A chi tocca nun se ‘ngrugna” vuol dire, se ti è capitata questa cosa, non prendertela, guarda avanti.

Il modo di dire potrebbe infatti essere nato da un antico gioco romano di carte: la “Passatella”. In pratica chi perdeva a carte non poteva bere per un giro e a chi spettava questa punizione si diceva, appunto, “A chi tocca non se ‘ngrugna”.

Questa espressione viene utilizzata per dire che, anche se una cosa o una situazione viene presentata in modo diverso, resta in sostanza la stessa.

Risalendo all’etimologia di queste parole, scopriamo che “zuppa” viene dal gotico “suppa” che vuol dire proprio “fetta di pane bagnato”. Ecco allora che dire “Si nun è zuppa è pan bagnato” equivale a dire “se non è fetta di pane bagnato è pane bagnato”. Ossia la stessa cosa.

 

Cercà cor lanternino

Quando si dice “Cerca con lanternino” s’intende il cercare una cosa difficile da trovare. Si sottolinea una ricerca scrupolosa, attenta e paziente. Questo modo di dire che alla romana diventa, appunto, “cercà cor lanternino” viene usato anche per riferirsi a quelle persone che finiscono sempre nei guai, si mettono nei pasticci, si ritrovano a risolvere preoccupazioni, sventure, grattacapi.

Sembra che il detto originario fosse “cercare con la lanterna” volendo richiamare la lanterna che Diogene. Si racconta che il filosofo andasse in giro, anche di giorno, portando con sé una lanterna accesa per “cercare l’uomo”.

 

Questo detto viene usato quando non c’è proprio niente da fare, quando non esistono alternative, quando non ce n’è per nessuno.

L’espressione sembra essere nata agli inizi del ‘900 (precisamente tra il 1907 e il 1913) quando il sindaco di Roma era Ernesto Nathan. Il primo cittadino di allora, divenne famoso in particolare per i tagli che fece al bilancio pubblico. Controllando il piano finanziario della città, Nathan notò una spesa che era denominata “frattaglie per gatti”. In pratica il Comune pagava il cibo alle colonie feline di Roma, questo perché i gatti erano preziosi per Roma, davano infatti la caccia ai topi evitando che questi ultii rosicchiassero i documenti degli archivi.

L’allora sindaco di Roma Ernesto Nathan, venuto a conoscenza di tale spesa decise di annullarla, annunciando che, da allora i gatti avrebbero dovuto procurarsi da soli il cibo e scrisse sul bilancio “Non c’è trippa per gatti”.

 

Cercà Maria pe' Roma

Questo detto viene utilizzato quando la ricerca di qualcosa o di qualcuno risulta davvero complicata, per non dire impossibile. “E’ come cercà Maria pe’ Roma” è dunque come dire “Cercare un ago in un pagliaio”.

In molti dicono che l’espressione sia nata per la difficoltà di trovare una persona dal nome tanto comune tra le mille strade di Roma.

Eppure sembra che le origini di questo modo di dire romanesco abbiano un legame con la religione cristiana e con la Madonna, in particolare modo legata al Passetto del Biscione.

L’espressione “Cercà Maria pe’ Roma” si riferirebbe proprio alla difficoltà di trovare a Roma quell’icona di Maria all’interno del Passetto.

Si tratta di un’espressione veloce, immediata, spesso inserita in frasi informali, nel parlare di tutti i giorni appunto.

Solitamente l’espressione “Papale papale” viene utilizzata in riferimento a qualcosa che si vuole dire in modo chiaro. “Te lo dico papale papale” si usa dire.

Il riferimento al Papa c’è ed è piuttosto immediato. Le parole del Pontefice, infatti, vengono ritenute chiare, veritiere, oneste. Da qui dunque l’utilizzo del gergo “papale papale” per riferire qualcosa in maniera trasparente, senza giri di parole, ma che arrivi dritta al punto.

Ma che c'hai prescia?

Questo detto viene usato per indicare qualcuno che ti mette fretta nel fare o dire qualcosa.

Il termine “prescia” sembrerebbe derivare dal latino “premere”, declinato in “pressa” al participio passato femminile e poi divenuto “pressia” nel latino volgare. Utilizzato per indicare macchine che fanno pressione o, in questo caso, per indicare qualcosa che mette pressione, ansia.

Si narra, però, che il significato di questo termine si leghi anche ad una tradizione del Carnevale romano. Durante i festeggiamenti, infatti, si svolgeva una gara di cavalli senza fantino – chiamata la corsa dei berberi (perché i cavalli venivano dal’Arabia) – e, sembra che a questi ultimi, per farli correre più veloci, venisse spalmata sotto la coda, una pece urticante detta prescia. Da qui nascerebbe anche una variante ancora più colorita del detto romanesco.

Questa espressione viene usata per indicare il borbottio di una persona.

Nasce dal rumore che la pentola (detta pila in romanesco) di fagioli fa quando bolle l’acqua. Quel borbottio, quel rumore costante ricorda il parlare incessantee di alcune persone, il loro essere petulanti, insistenti, il loro perseverante borbottare che, proprio come quella pentola di fagioli, ti entra nell’orecchio in maniera seccante.

Questo detto viene usato per avvertire di fare attenzione a qualcuno o a qualcosa.

Si dice che “Sta ‘n campana” derivi dal valore che le campane avevano un tempo. Quando non c’era l’orologio, infatti, solo le campane del paese scandivano il tempo e, dunque, bisognava prestare attenzione ai loro rintocchi. Non solo, erano le campane ad allertare i cittadini in caso di attacchi, emergenze, incendi, dunque ascoltarle era fondamentale per la salvezza in taluni casi.

La seconda possibile origine di questa espressione, invece, ha a che fare con lo sport e nello specifico con il basket. La campana, infatti, è una zona in prossimità del canestro che viene considerata come l’ultima possibilità della difesa per proteggere il canestro dall’avversario. Stare in campana in questo caso, dunque, avrebbe origine dallo stare nella campana del campo da basket pronti a difendere il canestro.

Fa er provola

Questo detto indica una persona che fa un po’ troppo il “dongiovanni”.

Versione romanesce di “fare il provolone”, riferito in particolare agli uomini corteggiatori.

La provola o il provolone sono dei formaggi a pasta filata dolci, piccanti o affumicati che mettono d’accordo grandi e piccini. Il “provolone” per antonomasia, però, nella lingua italiana, è anche l’uomo che corteggia tutte le donne, dunque quel “Macchè stai a fa er provola?”, detto alla romana, significa proprio “ma che ce stai a provà?”.

L’associazione del formaggio con l’uomo corteggiatore deriva dall’etimologia della parola “provola” così come di “provolone”. Entrambi i termini derivano, infatti, da “prova” che appunto vuol dire assaggio, da qui probabilmente l’associazione del “provola” a “colui che ci prova” con le donne.

Il miglior fico del bigoncio

Il detto “er mejo fico der bigonzo” (ovvero essere il fico migliore riposto nel bigoncio) fa riferimento ai frutti di fico migliori che venivano posti, appunto, in cima al bigoncio per ‘nascondere’ quelli meno belli, forse perché troppo maturi ed ammaccati, celati sul fondo. Ciò avveniva solitamente al termine della vendemmia quando i contadini tornavano alle loro case recando con sé secchi carichi di succulenti frutti. La locuzione, nel tempo, ha assunto il significato dell’indicare la persona migliore – solitamente per aspetto fisico, avvenenza e fascino – all’interno di un gruppo ristretto di individui.

Con affetto e sentimento, meno te vedo e mejo me sento

Sicuramente vi sarà capitato qualche volta di sentire pronunciare questa frase, soprattutto dalle persone più anziane, in dialetto romano. Significa: ‘Quando non ti vedo mi sento meglio’.

 

Nun fa 'na piega

Questa espressione si usa di fronte ad un ragionamento assolutamente logico o magari in riferimento ad una persona impassibile.

Il detto “nun fa na piega” viene dall’italiano “non fare una piega”, “non fare una grinza”, espressione utilizzata appunto per indicare un concetto senza alcun errore, che non ha bisogno di correzione alcuna.

Beato chi c'ha 'n occhio

Il detto è utilizzato dai romani per invitare a guardare il bicchiere mezzo pieno, a guardare la mediocrità con occhi diversi. Come a voler dire che in una determinata situazione, possedere quel qualcosa è ricchezza da non sottovalutare.

Questa espressione è in realtà parte di un proverbio romanesco che dice: “In tera de ciechi, beato chi c’ha ‘n occhio”.

Nun t'aregge

Questo detto si riferisce a chi deve compiere un’azione o prendere una scelta non facile. Può trattarsi di una sfida giocosa, del dichiararsi con una ragazza o un ragazzo, del lanciarsi in uno sport estremo o del dover dire, una volta per tutte, qualcosa di importante ad una persona.

“Nun t’aregge” è traducibile con “Non ti regge”, “non ti regge di fare una cosa”.

 

C'ho 'na cecagna

Per questo detto si indica quella improvvisa sonnolenza.

“Cecagna” è un termine che deriva dalla parola “cieco”, proprio perché senza preavviso ci si addormenta, per quanto tempo non è dato saperlo.

Pipinara

Quando si usa questa espressione si indica un affollamento di persone.

Oggi, però, il significato originario è un po’ cambiato, si è ampliato se vogliamo e con “pipinara” ci si riferisce non più soltanto ai bambini, ma a quella calca, ressa, folla di ogni genere ed età.

L’etimologia della parola “pipinara” è incerta, ma potrebbe derivare dal romanesco “pipino” che in gergo vuol dire pidocchio. Una moltitudine di bambini, dunque, viene paragonata nel parlato quotidiano ad un’invasione di pidocchi.

Che stai a guardà er capello?

Guardare il capello equivale a guardare il dettaglio, soffermarsi su una piccolezza e i romani sono soliti dirlo a chi fa il puntiglioso, a chi si impunta su una cosa piccola, trascurabile.

“Stai a guardà er capello” è un modo di dire che nasce nelle osterie, tra il 1500 e il 1600. I romani in quegli anni erano soliti riunirsi in osteria a bere vino. L’oste lo serviva in recipienti di terracotta o di metallo che non davano modo di vedere ai commensali quanto vino, effettivamente, fosse stato versato. Così, nel 1588, Papa Sisto V, per mettere fine ai tafferugli, sostituì i recipienti di terracotta e metallo con delle caraffe di vetro, trasparenti, che potessero mostrare la quantità di vino versato. La quantità di vino da rispettare in ogni recipiente, era indicata da una riga incisa nel vetro e questa riga in gergo si chiamava appunto “er capello”.

Esse er fijo dell'oca bianca

Questa espressione si usa quando ci si rivolge ad un privilegiato.

L’origine di questa espressione si trova nella Naturalis historia di Plinio e nel De vita duodecim Caesarum di Svetonio, i quali narrano che a Livia Drusilla, divenuta successivamente Augusta come sposa di Cesare, accadde un episodio particolare. Un’aquila in volo lasciò cadere nelle sue braccia una gallina bianca. Da allora, simbolo di auguri, la gallina bianca e tutti i suoi nati divennero sacri e allevati per trarne degli auspici.

Sembra proprio che quella gallina, con il passare dei secoli, abbia subito un’alterazione divenendo un’oca, bianca anche questa.

Fa' li guadagni de "Maria Cazzetta"

Questo detto si usa quando in una mossa fatta non c’è alcun guadagno, alcuna convenienza, quando un affare è fallimentare.

Al giorno d’oggi questa espressione è anche rivolta a chi si impegna molto per qualcosa senza poi ottenerne grandi vantaggi oppure a chi fa scelte sbagliate che non lo portano a nulla di buono.

Maria Calzetta è frutto della fantasia, ovviamente. Maria, un nome molto comune e “Cazzetta” che, ovviamente, vuole essere un cognome denigratorio, di disprezzo.

C’è anche la versione meno scurrile che modifica il detto in “Fa li guadagni di Maria Carzetta”, non è dunque sbagliato utilizzare anche questa espressione tanto, il succo del discorso, alla fine resta lo stesso.

 

Fa' 'na figura da peracottaro

Questa espressione equivale a dire “fare una figuraccia”.

Il peracottaro era il venditore di pere cotte che in passato si trovava presso i mercati, oppure in occasione delle feste rionali. Nell’uso popolare romano, il peracottaro era una persona che non offriva prodotti di alta qualità, per questo “Fa na figura da peracottaro” o “Fa la figura der peracottaro” equivale a dire “fare una figura meschina” e viene associata ad una persona non capace.

Esse de li tempi de Checco e Nina

Questo detto è sinonimo di “Anticaja e Petrella”, entrambe espressioni che vogliono qualcosa di antico, passato di moda, da buttare, “de li tempi antichi”.

Secondo le leggende romane, secondo alcuni spettacoli teatrali e racconti, Checco e Nina erano due innamorati.

Lui vissuto nella zona della Lungara, lei di San Cosimato.

Lui, tipo infedele e donnaiolo, si era fidanzato con la bella Nina che lo amava alla follia, finché stanca dei continui tradimenti di Checco decise di lasciarlo. Una storia antica, d’artri tempi, appunto, divenuta nei secoli un modo di dire sulla bocca di tutti.

Fa' venì il latte alle ginocchia

Questa espressione indica una situazione di noia assoluta, di insofferenza, o si riferisce ad una persona pesante, che, appunto, annoia.

Questo modo di dire deriva da un’antica tecnica di mungitura delle mucche, quella svolta a mano che qualcuno svolge ancora oggi. In pratica, colui che deve mungere a mano la mucca, si siede solitamente accanto al bovino, mette un secchio sotto alle mammelle e inizia la mungitura. Si tratta, però, di una pratica lunga, faticosa, spesso noiosa, anche perché il latte deve arrivare fino al livello delle ginocchia.

Aridaje

Aridaje è quell’espressione utilizzata dai romani per sottolineare la noiosa e non indispensabile ripetizione di parole o di azioni. E, non a caso, il tono che accompagna questa parola è spesso scocciato, annoiato, seccato. Un po’ come dire “c’arisemo”

Stamo da capo a dodici

La locuzione “da capo a dodici” è un’espressione tipicamente romana: “Stemo da capo a dodici” che vuole significare “ricominciare daccapo” e quel dodici è riferito ai mesi dell’anno, quindi l’inizio di un nuovo anno.

 

Fare un Baffo

I baffi, dal greco baphé = tintura forse a indicare una macchia sopra le labbra, sono, od almeno erano, simbolo apprezzato di virilità la cui forma e misura varia a seconda delle mode da una sottile striscia a imponenti e autoritari cespugli pelosi. Proprio i capricci della moda sono colpevoli di alcuni modi di dire, ormai desueti: “aver baffi a manubrio” (come i vecchi manubri di bicicletta) o “aver baffi alla sparviera” (sottili come ali di sparviero in volo); molto antico è invece “aver preso il turco per i baffi” (aver avuto gran fortuna), mentre più attuali “ridere sotto i baffi” (in maniera sorniona), “roba da leccarsi i baffi” (cose squisite) e l’espressione colloquiale dal tono ironico “fare un baffo” col significato di infischiarsene, ostentare quindi una sicurezza davanti a una minaccia. Il detto richiama l’epoca nella quale i baffi si diffusero maggiormente.