I Fantasmi di Roma

In questa sezione scoprirai tutte le leggende legate ai  fantasmi che popolano ancora Roma

BEATRICE CENCI

Beatrice Cenci fu una nobildonna romana accusata e poi giustiziata per aver ucciso il padre, in seguito assurta al ruolo di eroina popolare. Nasce il 6 febbraio del 1577 a Roma, figlia di Ersilia Santacroce e di Francesco, conte dissoluto e violento.

Dopo aver perso la mamma ancora bambina, a soli sette anni Beatrice Cenci viene affidata alle monache francescane del Monastero di Santa Croce a Montecitorio insieme con la sorella Antonina. A quindici anni ritorna in famiglia, ma trova un ambiente violento e complicato, con il padre che la insidia e la sevizia continuamente.

Egli, sposatosi in seconde nozze con Lucrezia Petroni, dopo essere stato in carcere ed essendo pesantemente indebitato, vuole impedire alla figlia di sposarsi, in maniera da non dover pagarle la dote, e per raggiungere il suo scopo arriva al punto di segregarla in un piccolo castello del Cicolano chiamato la Rocca, a Petrella Salto, nel Regno di Napoli. Beatrice esasperata dagli abusi sessuali e dalle violenze di cui è vittiema, decide di uccidere il padre con l’aiuto dei fratelli Bernardo e Giacomo, della matrigna Lucrezia, di un castellano e di un maniscalco.

Così come gli altri congiurati, anche Beatrice, dopo avere negato in un primo momento il proprio coinvolgimento nell’assassino, viene sottoposta alla tortura della corda, e viene rinchiusa nel carcere di Corte Savella insieme con la matrigna Lucrezia. Beatrice e Lucrezia vennero condannate alla decapitazione avvenuta l’11 settembre del 1599, davanti a numerose persone tra le quali anche Caravaggio.

IL FANTASMA

Il fantasma forse più famoso di Roma è quello di Beatrice Cenci, giovane nobildonna romana di epoca tardo-rinascimentale.

Costretta a vivere con un padre-padrone, Beatrice, dopo anni di violenze, decise di denunciarlo. Le sue richieste di aiuto, però, caddero nel vuoto, sebbene chiunque a Roma sapesse che tipo di persona fosse Francesco Cenci.

Al colmo dell’esasperazione, Beatrice, Lucrezia, la seconda moglie del padre, i fratelli Giacomo e Bernardo, il castellano Olimpio Calvetti e il maniscalco Marzio da Fioran, decisero di ucciderlo. Per simulare una morte accidentale, decisero di gettare il corpo da una balaustra.

Il processo sentenziò la condanna a morte di tutti gli indagati, la cui esecuzione ebbe luogo all’alba dell’11 settembre 1599. Beatrice non trovò pace neanche dopo la morte. Nel 1798, durante l’occupazione francese, alcuni soldati entrarono a San Pietro in Montorio, distruggendo buona parte delle pietre tombali tra cui quella di Beatrice. I suoi resti furono dispersi e mai più recuperati. Qualcuno riferì addirittura che il suo teschio fu usato a mo’ di palla.

Da allora, ogni anno nella notte tra il 10 e l’11 settembre, c’è chi giura di aver visto il fantasma della giovane donna camminare avanti e indietro lungo il ponte che conduce a Castel Sant’Angelo, con la propria testa recisa in mano.

DONNA OLIMPIA

Olimpia Maidalchini, divenuta Pamphili dopo aver sposato in seconde nozze l’anziano fratello di colui che poi divenne Papa Innocenzo X, ai romani non piacque mai, tanto da essere soprannominata “la Pimpaccia di Piazza Navona”, bersaglio frequente delle frecciate anonime affisse sulla statua del popolare Pasquino (una delle più gustose, di certo, quella che la definiva “Olim Pia, Nunc Impia” ossia “Una volta Pia, ora Empia”).

Donna energica, arrogante e, a quanto pare, avidissima, conquistò nella seicentesca Roma maschilista grandi ricchezze e potere, tanto da essere definita una “papessa”.

Donna Olimpia regnava come una vera regina, tessendo trame politiche e manipolando gli eventi, e il papa. La sua forte influenza sul cognato, era nota a tutti, e ben presto divenne l’unica persona di cui egli si fidasse per ogni decisione. Ossessionata dal denaro, dal potere e dagli eccessi, accumulò enormi ricchezze, senza curarsi delle maldicenze del popolo che la disprezzava e la accusava persino di essere l’amante del papa. Alessandro VII, il papa che succedette a Innocenzo X, la esiliò a San Martino al Cimino invitandola a restituire l’oro, ricevendo un netto rifiuto. Donna Olimpia morì di peste due anni dopo.

IL FANTASMA

Sembra che, anche dopo la morte, la “Pimpaccia” non abbia smesso di perseguitare i romani: salendo ogni notte a mezzanotte su un cocchio nero, trainato da cavalli infernali dagli occhi di fiamma, percorrerebbe le strade al galoppo, sprizzando scintille, da Villa Pamphili fino a Trastevere, presso Santa Maria in Cappella passando sotto l’arcata del restaurato acquedotto di Traiano che scavalca l’Aurelia antica e si chiama “Arco di Tiradiavoli”.

Secondo molti testimoni in passato non pochi incauti cittadini, incappati sfortunatamente sul percorso della carrozza, si sarebbero gettati terrorizzati nel Tevere da ponte Sisto, per evitare la spettrale visione. Insomma, per dirla con Pasquino: Chi dice donna, dice danno – chi dice femmina, dice malanno – chi dice Olimpia Maidalchina, dice donna, danno e rovina.

Vannozza Cattanei

Vannozza, soprannome di Giovanna Cattanei, era una donna astuta e intelligente. Era la padrona di un’osteria che si trovava in vicolo del Gallo, una stradina che c’era allora e c’è ancora adesso e che si trova vicino a Campo de’ Fiori. Cercate il numero 13 e, alzando gli occhi, osservate bene la stele di marmo dove è custodito lo stemma della Vannozza: un miscuglio di quello del marito unito ai simboli della famiglia Borgia, gli spagnoli d’Aragona, stranieri a Roma, che riuscirono a piazzare ben due Pontefici in Vaticano.

Fu l’amante ufficiale del cardinale Rodrigo Llançol Borgia, in seguito eletto al soglio pontificio come papa Alessandro VI. 

Dalla loro relazione, che durò circa quindici anni, nacquero quattro figli: Cesare, Giovanni, Lucrezia e Goffredo.

Il ricordo di Vannozza respira sulla Scalinata Borgia. Vannozza, infatti, viveva proprio nelle stanze del palazzo a cavallo della superba scalinata.

Quando morì, Vannozza fu sepolta a Santa Maria del Popolo, la chiesa costruita sulla tomba di Nerone, uno degli imperatori più odiati della famiglia dei Giulio-Claudii, l’imperatore della Domus aurea, la cui effige fu cancellata in odio al suo comportamento. Anche Vannozza, che aveva dovuto seguire il funerale di Cesare e di un altro figliolo, fu dimenticata. Nel 1527, la sua tomba fu profanata dai Lanzichenecchi che avevano messo la città a ferro e a fuoco, durante il celebre sacco di Roma.

IL FANTASMA

Nonostante la vita ritenuta peccaminosa, e poi scontata con anni di rigida penitenza la bella e tranquilla Vannozza porta il suo fantasma malinconico nel luogo dove sorgeva la “Locanda della Vacca” sua proprietà in gioventù e luogo del suo incontro fatale.

Si tratta della Scalinata dei Borgia dove nel 1497, dopo una festa nella vigna della madre Venozza, il figlio Giovanni scompare e non si ha più tracce di lui per alcuni giorni, finché il Tevere non ne restituisce il corpomartoriato da nove pugnalate alla testa e al torace, probabilmente ucciso dal fratello Cesare.

Sempre qui sembra che la svergognata sorella Lucrezia abbia ucciso tutti i suoi amanti facendoli sparire in una botola posta sotto il loro palazzo. Sul balcone, la leggenda narra che, spesso appare una donna dal volto affranto, questo non può che essere il fantasma di Vannozza, sconvolta dagli intrighi e dai delitti dei sui stessi figli.

Valeria Messalina

Valeria Messalina nasce in una famiglia patrizia di casata Giulio-Claudia, nipote di Augusto, a 12 anni era considerata una delle donne più belle di Roma.

A soli 14 anni è obbligata a sposare Claudio, un uomo molto più grande di lei, calvo, balbuziente, e con numerosi handicap fisici.

Ebbero due figli, Claudia Ottavia e Tiberio Claudio.

Messalina divenne imperatrice a soli 16 anni e cominciò una vita di feste e divertimenti.

Aveva la sua corte personale e passava da un’infatuazione ad un’altra ed i prescelti non potevano permettersi di non soccombere alle sue voglie.

Giovane e inquieta, Messalina non ama l’ambiente regale cui appartiene e cerca la trasgressione anche fra la gente del popolo. La leggenda più “scabrosa” che la contraddistingue la vede travestita da prostituta sotto il falso nome Licisca e, completamente depilata, i capezzoli dorati, gli occhi segnati da una mistura di antimonio e nerofumo, offrirsi ai marinai o ai gladiatori per qualche ora al giorno.

Amante regolare di personaggi in vista della Roma dell’epoca, fra cui il governatore Appio Giunio Silano, l’attore Mnestere, e infine Gaio Silio, marito di Giulia Silana, il quale ripudiò la moglie e divenne l’amante ufficiale dell’Imperatrice.

Durante l’assenza dell’Imperatore Claudio, Messalina inscenò il proprio matrimonio con Gaio Silio durante una festa dionisiaca a palazzo.

Claudio non aveva problemi di gelosia, ma era terrorizzato dalla possibilità che qualcuno potesse legittimamente avanzare pretese al trono di Roma. I due amanti furono raggiunti dai soldati ma, mentre Gaio Silio non oppose resistenza all’inevitabile sentenza, Messalina tentò di fuggire alla morte, scappando negli Horti Luculliani insieme alla madre dove venne, infine, uccisa.

IL FANTASMA

In prossimità del Colosseo, accanto ai resti del Tempio dell’Imperatore Claudio, vaga uno degli spettri più famosi dell’antichità imperiale: una donna avvolta in un peplo bianco, le braccia coperte di gioielli e un diadema fra i capelli, in cerca dell’ennesimo amante.

Si tratta di Messalina, considerata la donna più scandalosa dell’antica Roma. Fu descritta da molti come una ninfomane seriale, e secondo alcune storie di Plinio il Vecchio, pare avesse sfidato la prostituta più famosa dell’epoca in un gioco immorale, in cui la vincitrice sarebbe stata colei che avrebbe collezionato più rapporti sessuali in 24 ore: Messalina vinse la sfida, con il numero di 25 rapporti.

Tutta Roma era a conoscenza dei comportamenti trasgressivi di Messalina, tranne Claudio.

Quando la ragazza si innamorò del console Gaio Silio, tanto da simulare con lui un matrimonio, l’imperatore decretò la sua morte.

La vita di Messalina fu spezzata a soli 23 anni da un tributo militare che, mentre la uccideva avrebbe pronunciato le seguenti parole: “Se la tua morte sarà pianta da tutti i tuoi amanti, piangerà mezza Roma!”.

Imperia Cognati

Imperia Cognati, detta anche Imperia La Divina, fu una prostituta romana e le fonti ne elogiano il fascino e l’intelligenza. Il banchiere Agostino Chigi, considerato all’epoca il banchiere più ricco del mondo, era il suo cliente principale. Finanziò lo stile di vita lussuoso di Imperia, che aveva sia un palazzo a Roma sia una villa di campagna.

Si racconta che fu corteggiata da molti uomini della corte papale e da esponenti di famiglie nobili, tra questi, anche il celebre pittore Raffaello, il quale la immortalò come ninfa Galatea.

Imperia, s’innamorò, però, di Angelo del Bufalo, un banchiere, il quale non ricambió il suo amore; la donna, allora ferita e amareggiata si avvelenò il 13 agosto 1512. Agostino Chigi la soccorse e fece venire i migliori medici per aiutarla ma nonostante ciò morí il giorno di ferragosto in una strana giornata caratterizzata da temporali e grandine.

IL FANTASMA

Villa Celimontana è il luogo che riguarda il fantasma della cortigiana Imperia.

Si dice che durante la sua vita era una donna di rarissima bellezza.

Secondo la leggenda del fantasma, Imperia oggi vaga tra quelle mura cercando le sue stesse ossa che prima furono tumulate in una tomba a San Gregorio Magno, e che poi furono rimosse per far posto a quelle di un anonimo canonico.

Al giorno d’oggi la posizione dei resti della cortigiana Imperia risulta del tutto sconosciuta.

 

Costanza de Cupis

Costanza, era una giovane e bellissima donna appartenente alla nobile famiglia dei Conti.

La giovane fanciulla, subito dopo essersi sposata, si trasferì a Roma in una delle residenze della ricca borghese famiglia del marito, in un palazzo affacciato sulla bellissima Piazza Navona.

Costanza era una fanciulla di bellezza da far invidia alle dame dell’aristocrazia del tempo, ma ciò che in realtà colpiva maggiormente l’attenzione,erano le sue splendide mani, tanto che le fu chiesto di farne riprodurre la forma in un calco di gesso da tal “Bastiano alli Serpenti”.

La ragazza mentre era intenta a cucire, inavvertitamente, la nobildonna si punse con un ago. La giovane iniziò a stare male a causa della ferita ed in breve andò incontro ad una gravesetticemia. L’infezione portò Costanza alla morte.

IL FANTASMA

La leggenda narra che nelle notti di luna piena si possono scorgere al primo piano della finestra di Palazzo Tuccimei, presso Piazza Navona, le mani di Costanza De Cupis, una donna vissuta nel ‘600 nota per la bellezza delle sue mani. Così incantevoli che l’artista Bastiano volle riprodurle in un calco di gesso.

Si narra che tutta Roma giungeva alla bottega di Bastiano in via dei Serpenti per ammirarle.

Un giorno un frate dominicano che vide il calco commentò che mani così belle avrebbero potuto generare invidia e che la proprietaria avrebbe corso il rischio di vederle tagliate.

Costanza per paura che le potesse succedere qualcosa, si rinchiuse in casa, dove per un incidente domestico di poco conto si ferì un dito, mentre cuciva con l’ago.

I medici furono costretti ad amputare le mani che si erano violentemente e inspiegabilmente infettate e poco dopo la donna morì di setticemia.

Tullia Minore

Tullia Minore fu la figlia del re di Roma Servio Tullio e seconda moglie del successore Tarquinio il Superbo,  con cui ebbe i figli Tito Tarquinio, Arrunte Tarquinio e Sesto Tarquinio.

Secondo il racconto di Tito Livio  avrebbe ucciso il padre Servio Tullio in complicità col marito.

Tullia Minore fu moglie di entrambi i figli di Lucio Tarquinio Prisco, quinto re di Roma; dapprima si sposò con Arunte Tarquinio, mentre la sorella, Tullia Maggiore, andò in sposa a Lucio Tarquinio futuro ed ultimo re.

Lucio Tarquinio e Tullia Minore si unirono in matrimonio dopo avere ucciso i rispettivi consorti; Servio Tullio non fu contrario né consenziente alle loro nozze.

Giorno dopo giorno, Tullia Minore istigava ed incitava il marito a commettere un secondo delitto: quello del padre, il re Servio Tullio.

Quando Tarquinio decise di impossessarsi del potere e scaraventò giù dalle scale della curia Servio Tullio, dopo averne occupato il trono, fu Tullia ad inviare i sicari che assassinarono il re. Ella, poi, giunse in senato con il proprio cocchio e, dopo averlo chiamato fuori dalla curia, conferì al marito il titolo di re.

Una volta ucciso il padre ordinò al servo di calpestarne il corpo con il cocchio. In seguito ripartì sulla vettura che grondava sangue e fece ritorno a casa.

IL FANTASMA

Si narra che in una fredda notte d’inverno di alcuni anni fa ad un nottambulo capitò di vivere un’esperienza a dir poco inquietante: stava per imboccare la salita di S. Francesco di Paola quando gli sembrò di sentire un lamento provenire dalla piazza davanti a sé, poi silenzio.

Era appena entrato nella via, quando, questa volta alle spalle, sentì senza ombra di dubbio il rumore di un carro che si avvicinava a tutta velocità, ma non vide assolutamente nulla.

Poco dopo udì di nuovo un lamento e poi il silenzio.

Il nottambulo si avvicinò al luogo da dove era venuto il lamento e non vide nulla, solo una grande pozza d’acqua, in cui inavvertitamente mise i piedi. Tornato a casa, nel levarsi le scarpe, le vide tutte sporche di sangue.

 

Cristina di Svezia

Cristina di Svezia, o Cristina Alessandra Maria fu la regina di Svezia dal 1632,  ma con pieni poteri solo dal 1462, fino all’abdicazione avvenuta nel 1654.

Descritta dagli studiosi come ribelle, spregiudicata ed un’eccentrica regina seicentesca che sfidò i suoi tempi, fin dalla nascita.

Ci sono tanti motivi per cui la regina Cristina di Svezia può essere considerata una protagonista della storia. Nata nel Seicento, fu una delle prime luterane a convertirsi al cattolicesimo, ma anche una grande mecenate.

Alla nascita, la piccola presentava un’ipertrofia iperclitoridea che portò i medici a confondere il clitoride per un pene e quindi a credere che si trattasse di un bambino. Solo il mattino seguente venne dichiarata ufficialmente femmina, ma ciò non impedì a Cristina di vivere come un maschio.

Fu molto amica di Gian Lorenzo Bernini, il quale in suo onore, restaurò la famosa Porta del Popolo, sulla quale può ancor oggi esser letta la scritta che inneggia al «suo felice e fausto ingresso» in città il 23 dicembre 1655 («Felici faustoque ingressui»), che è posta sotto al simbolo araldico dei Chigi cinto dai fasci di spighe dei Vasa.

Cristina fu una regina diversa dalle altre, era poliglotta, intelligente e colta, fu inoltre, una grande collezionista d’arte, appassionata di teatro e intellettuale, e nel 1646 riuscì persino a intraprendere una corrispondenza epistolare col celebre filosofo Cartesio.

Cristina non si sposò mai e dichiarò la sua volontà di non diventare una moglie. Poco si sa con certezza dei suoi legami, ma molti biografi hanno indicato come sua compagna la dama di compagnia Ebba Sparre.

 

IL FANTASMA

Cristina morì il 19 aprile 1689, confortata solo dal cugino, il marchese Michele Garagnani, e dal fedele cardinale Azzolino che presenziò al suo capezzale sino alla sua dipartita.

Tra le molte e preziose opere della collezione della regina, Pompeo vendette una Venere che piange Adone di Paolo Veronese che oggi, dopo una serie di acquisti e compravendite, si trova infine al Museo Nazionale di Stoccolma.

In piazza del Popolo, nelle vicinanza della monumentale chiesa di Santa Maria del Popolo si aggirerebbe l’elegante spettro di Cristina di Svezia, che il 23 dicembre 1655, entrò a Roma attraversando questo luogo, come oggi ricorda un’antica iscrizione.

Luca de Marchettis

Fra la strada che collega via dei Quattro Venti e Villa Pamphilij, si può vedere ancora oggi una villa diroccata che gli abitanti chiamano “la casa dei fantasmi”.

Questa villa un tempo splendida e rinomata per le feste grandiose date al suo proprietario era l’abitazione del Marchese Luca de Marchettis.

Un uomo bellissimo, dai modi raffinati che amava partecipare in incognito alle feste popolari romane di Trastevere e dei quartieri del centro della città. Il suo scopo era tenebroso ma la sua personalità era assolutamente affascinante e soprattutto convincente.

Non gli era quindi difficile avvicinare durante i balli le più belle e giovani fanciulle della festa.

Le corteggiava inducendole con menzogne ad accompagnarlo nella sua villa di Monteverde. Tutte quelle giovanissime donne alle quali il gentiluomo prometteva il fidanzamento e un successivo matrimonio, lo seguivano senza timore credendo ingenuamente nella insperata fortuna di accasarsi con un giovanotto ricco di bell’aspetto e nobile.

Appena giunti alla Villa, però, la ragazza subiva violenze e indecenti giochi erotici e infine veniva stuprata e uccisa. Il cadavere fatto sparire attraverso un passaggio segreto che sbucava nei boschi che a quell’epoca coprivano i dintorni.

IL FANTASMA

Si racconta che il marchese per paura che le ragazze potessero raccontare dei suoi giochi erotici, le iniziò ad uccidere brutalmente.

La smania di sangue, si trasformò in breve in un passatempo irrinunciabile per il marchese.

Un giorno in preda ai sensi di colpa e, convinto di essere posseduto dal demonio, si sottopose ad un esorcismo che si concluse con il suicidio.

La leggenda vuole che prima di gettarsi dalla finestra, il marchese urlò al prete che cercava di liberarlo dal suo demone “tornerò!”.

Da allora c’è chi cerca la sua misteriosa tomba in un antro sotterraneo di Villa Pamphilij.

E c’è chi evita di passare di sera nella via di San Calepodio per non incontrarsi con uno strano uomo tutto vestito di nero.

 

Cagliostro e Lorenza Feliciani

Lorenza Serafina Feliciani era una giovane donna di Roma che, per la sua bellezza e forte personalità, attirò su di se le attenzioni di Giuseppe Balsamomeglio conosciuto come Alessandro Conte di Cagliostro. Un imbroglione, di origini siciliane, assai abile nel raggirare nobili signori e ricchi mercanti.

I due si piacquero da subito e si sposarono iniziando una vita coniugale colma di intrighi e astute macchinazioni.

Lui istrione e abile affabulatore, lei seducente e licenziosa, insieme formavano una coppia di raffinati lestofanti.

Cagliostro non aveva remore a far scivolare la moglie nei letti di ricchi malcapitati, e Lorenza, bendisposta a certi giochetti d’alcova, li restituiva al marito inermi e pronti per esser ben truffati.

In seguito Cagliostro iniziò a praticare l’alchimia e tutta una serie di dottrine esoteriche che gli facilitarono la fondazione di una propria loggia Massonica. Ad essa fece aderire adepti di elevato ceto sociale per ottenere prestigio e soprattutto potere economico.

In questo gioco Lorenza non aveva che una parte marginale. Trascurata dal marito e privata del ruolo di prima donna iniziò ad invidiare Cagliostro e a maturare, nei suoi confronti, astio e rancore.

Accusato di una lunga serie di reati, Cagliostro venne arrestato e rinchiuso a Castel Sant’Angelo. Al processo, Lorenza confermò le sue accuse, e Cagliostro venne condannato per eresia. La pena prevista era la condanna a morte che però fu commutata in reclusione a vita, dopo l’abiura.

Cagliostro scampò, quindi, alla morte, ma venne condannato al carcere a vita in una cella senza porte, in cui fu calato da una botola sul soffitto, e dove morì quattro anni dopo. Lorenza, per quanto assolta, fu costretta a restare confinata per 15 anni entro il convento di Santa Apollonia e in seguito lavorò come semplice portinaia patendo la miseria e subendo i rimorsi di quelle accuse, che valsero al marito una tremenda reclusione.

I FANTASMI

Dietro piazza Farnese, in vicolo delle Grotte, si aggira il fantasma di Giuseppe Balsamo, meglio noto come Alessandro, Conte di Cagliostro.

Si dice che, durante la notte, Cagliostro torni in vicolo delle Grotte, chiamando disperatamente il nome della moglie dissoluta, Lorenza Feliciani.

Il folklore popolare racconta di una donna col volto velato di nero che percorre sempre lo stesso tragitto tra i vicoli di Trastevere e piazza di Spagna, dove fu arrestato Cagliostro.

È il fantasma di Lorenza che con i suoi sussurri e lamenti vaga disperata in cerca del marito.

Angelo Targhini e Leonida Montanari

Angelo (o Angiolo) Targhini e Leonida Montanari sono stati due carbonari italiani membri di una delle cosiddette “vendite”, ossia delle riunioni segrete carbonare, scoperti per aver tentato di uccidere un infiltrato.

Furono condannati a morte per “lesa maestà”e giustiziati con la decapitazione.

L’esecuzione fu opera di Mastro Titta, boia dello Stato Pontificio dal 1796 al 1864. 

Sia Targhini che Montanari furono sepolti entrambi dove oggi c’è il Muro Torto, nella terra sconsacrata dove finivano i suicidi, i ladri, i vagabondi e le prostitute.

Ancora oggi a sinistra di Porta del Popolo, sul fianco della caserma dei carabinieri, si può leggere la lapide in memoria dell’esecuzione dei due carbonari apposta nel 1909.

I romani, colpiti dalla vicenda dei due martiri, li adottarono dopo la morte, tanto da ritenerli figli della città eterna e da dimenticare, nel tempo, le origini forestiere dei due.

I FANTASMI

Dov’è situato il Muro Torto vi furono sotterrati i corpi dei due carbonari Angelo Targhini e Leonida Montanari ghigliottinati in piazza del Popolo nel 1825.

Stando alle cronache sotto i prati del Muro Torto riposerebbero i resti di centinaia e centinaia di reietti dell’urbe che, proprio per le loro anime irredente e maledette, hanno finito per dare all’intero sito la fama di Campo Scellerato.

Per svariati secoli il Muro Torto fu considerato infestato da demoni e fantasmi, frequentato da streghe, negromanti e fattucchiere e non di rado lo si associò al “Sepulcrum Neronis” ovvero il presunto luogo di sepoltura dell’imperatore Nerone.

Quest’ultimo infatti, per tutto il medioevo, fu associato a una delle tante incarnazioni di Satana a causa della sua nota quanto infondata avversione per il culto Cristiano.

Sarebbe quindi possibile vedere il fantasma di Nerone vagare desolato tra i prati del Muro Torto assieme a quelli dei due carbonari sopra menzionati e ad una moltitudine di spettri comuni e disperati, privi di qualsiasi perdono divino e pietà terrena.

L’immaginazione popolare diede un punto esatto al luogo del sepolcro neroniano, ovvero sotto le radici di un gigantesco noce maledetto che per secoli avrebbe attirato a se streghe diavoli e adepti del male.

 

Nerone

L’imperatore romano Nerone è stato un personaggio pieno di contraddizioni: un pazzo ha incendiato la città, racconta la leggenda, ma anche un uomo amante dell’arte e della bellezza. Un despota megalomane e crudele ma, allo stesso tempo, amato dal popolo per la riforma tributaria e monetaria che diedero vantaggi ai più poveri. Nerone fu l’ultimo rappresentante della dinastia Claudia.

Il vero nome di Nerone era Lucio Domizio Enobarbo. Nacque ad Anzio da Agrippina e Gneo Domizio Enobarbo.

Diventato imperatore, con il passare del tempo, però, in Nerone si scatenarono paranoia e magalomania. Convinto di essere un grande poeta obbligava il popolo ad assistere alle sue esibizioni.

Nel marzo del 59 d.C Agrippina venne uccisa su ordine dl figlio, forse su consiglio del suo maestro, Seneca. Nerone si giustificò dinanzi al Senato affermando che Agrippina aveva congiurato contro di lui e contro lo Stato.

In effetti pare che Agrippina avesse intenzione di detronizzare l’imperatore e di mettere al suo posto un altro uomo con cui intendeva risposarsi. Nerone, però, pagò a caro prezzo il matricidio e fu tormentato da tremendi incubi per il resto della vita, prezzo dell’orrendo delitto.

L’uccisione della madre cambiò profondamente l’imperatore e segnò l’inizio di un governo dispotico, passato alla storia come uno dei più vergognosi che Roma abbia mai avuto. Infatti, liberatosi dal controllo della madre, Nerone cominciò a soddisfare ogni suo capriccio.

La notte del 19 luglio del 64 d.C, era una notte di luna piena, un incendio divampò a Roma. L’incendio durò sei giorni, sembrò spegnersi e poi riprese vigore e durò altri tre giorni: la città fu in gran parte distrutta . Si pensò che fosse stato l’imperatore stesso a dare l’ordine di iniziare l’incendio. Si pensa però che non fu Nerone a dare l’ordine ma sicuramente accusò del disastro i cristiani. 

IL FANTASMA

Come narra la leggenda, il controverso imperatore Nerone fu sepolto al centro di piazza del Popolo e che sopra la tomba fu piantato un albero di noce.

Le sue ossa, però, cominciarono ad attirare spiriti e demoni che recavano grande spavento ai residenti della zona.

I cittadini chiesero aiuto a papa Pasquale II che, nel 1099, dopo essersi ritirato in clausura ebbe un’apparizione della Madonna che gli suggerì di abbattere il noce, disseppellire le ossa dell’Imperatore, bruciarle e disperderle nel Tevere.

Gli spiriti scomparvero e al posto del noce venne edificata una cappella dedicata alla Vergine Maria.

Nel 1472, al posto della cappella, Papa Sisto V fece costruire l’attuale Basilica di Santa Maria del Popolo al cui interno, esattamente al di sopra dell’altare maggiore, c’è un arco decorato con bassorilievi che ritraggono papa Pasquale II nell’atto di abbattere l’albero di noce.

Alfred Wilhelm Strohl

Su per via di Villa Ruffo nascosta dietro una fitta vegetazione, si trova l’accesso di uno dei luoghi più strani e meno ambiti dal turismo convenzionale.

L’intera area fu acquistata da Alfred Wilhelm Strohl nel 1879 per costruirvi la sua singolare dimora concepita come un vero e proprio eremo artistico.

Egli, infatti, era un valido artista ed un raffinato esteta.

Nato a Sainte-Marie-aux-Mines nell’alto Reno in Francia, Strohl ebbe modo di girare il mondo e accrescere una cultura mutuata non solo dagli studi e le letture ma anche con preziosi contatti umani.

La sua tomba si trova al cimitero acattolico presso la piramide Cestia.

 

IL FANTASMA

La singolare architettura della villa e i lunghi periodi di clausura artistica che il suo proprietario si imponeva diedero origine a dicerie e racconti più o meno inquietanti.

Movimenti poco chiari nel cuore della notte e fugaci quanto rare apparizioni diurne esibendo una curata barba bianca gli valsero la fama di mago o negromante; qualcuno lo paragonò anche al mago Merlino dei poemi cavallereschi e della tavola rotonda.

Strohl, con la sua villa, mise in atto un progetto molto simile a quello per il quale Re Artù è tutt’ora famoso. Nella sua Camelot artistica si circondò di una vasta ed eterogenea corte di

artisti fornendo loro ricovero, supporto e strumenti per produrre le loro opere.

Non sono pochi coloro che, dopo il crepuscolo, intravedono tra la vegetazione, dietro i vetri delle finestre e lungo i viali sinistre presenze e diafane luminescenze. Una in particolare un uomo dalla folta barba bianca.

Mastro Titta

Mastro Titta, soprannome di Giovanni Battista Bugatti, nacque a Senigallia il 6 marzo 1779 e morì a Roma il 18 giugno 1869.

Ufficialmente il suo mestiere era quello di verniciatore di ombrelli, ma in realtà era il boia dello Stato Pontificio, il “maestro di giustizie”.

Noto anche come “er Boja de Roma”, iniziò la sua carriera di incaricato delle esecuzioni delle condanne a morte il 22 marzo 1796 e fino al 17 agosto 1864, ovvero fin quando andò in pensione. Raggiunse la quota di 514 nomi di giustiziati.

Mastro Titta non era certamente amato dai suoi concittadini, per cui viveva in una sorta di domicilio forzato all’interno della cinta vaticana, sulla riva destra del Tevere, gli era addirittura vietato, per prudenza, recarsi nel centro della città.

A Roma però le esecuzioni capitali pubbliche non avvenivano nel borgo papalino, ma sull’altra sponda del Tevere, in eccezione al divieto il Bugatti doveva attraversare ponte (ovvero ponte S. Angelo) per andare a prestare i suoi servigi.

Questo contribuì alla nascita di uno dei detti popolari più famosi: “Mastro Titta passa ponte”, che voleva dire che qualcuno, quel giorno stesso, sarebbe stato giustiziato.

IL FANTASMA

Poco prima del sorgere del sole, nei pressi di Castel Sant’Angelo, è facile imbattersi in uno strano personaggio avvolto da un manto scarlatto. È Giovanni Battista Bugatti, il leggendario Mastro Titta, il boia più famoso di Roma.

Si dice che ami passeggiare presso i luoghi dove eseguiva le sentenze, ossia vicino la chiesa di Santa Maria in Cosmedin, in Piazza del Popolo ma, soprattutto, nelle vicinanze di Ponte Sant’Angelo.

Si racconta che, talvolta, offra una presa di tabacco a coloro che incontra, così come era solito fare con i condannati, poco prima delle esecuzioni.

La tabacchiera di Mastro Titta, così come il suo mantello rosso, sono conservati al Museo Criminologico del Palazzo del Gonfalone.

Tra il popolo romano che partecipava alle esecuzioni nacque una curiosa tradizione che durò fino al giorno in cui esse ebbero termine nel 1870: i padri di famiglia portavano i loro figli maschi ad assistere alle torture e alle morti dei condannati.

Nel momento esatto in cui una testa saltava, o qualcuno veniva appeso al cappio ed esalava l’ultimo respiro, il bambino riceveva uno sganassone, uno schiaffo, affinché gli si imprimesse nella memoria l’avvenimento e come memento di cosa gli sarebbe potuto capitare, qualora intendesse mettersi nei guai con la giustizia.

UMBERTO I

Umberto I di Savoia fu Re d’Italia dal 1878 al 1900.

Figlio di Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, e di Maria Adelaide d’Austria, regina del Regno di Sardegna. 

Il Regno di Umberto I di Savoia rimane avvolto da un velo di ambiguità e controversie.

Sostenitore del disastroso slancio coloniale italiano.

Umberto I in politica interna concesse la svolta autoritaria del governo Crispi e ignorò la sanguinosa repressione del generale Bava Beccaris durante i Moti di Milano.

Proprio per il suo estremismo fu vittima di tre attentati, perdendo la vita nell’ultimo.

Nonostante tutto, Umberto I passò alla storia come “Il Re Buono” per il suo carattere, a volte, onesto e gentile.

Questo però non fermò l’anarchico Gaetano Bresci, che il 29 di luglio, nei pressi della Villa Reale di Monza, assassinò a colpi di rivoltella, il Re Umberto.

IL FANTASMA

Tra le varie credenze popolari sembra che al Pantheon si presenti in determinate occasioni il fantasma di Umerto I di Savoia, la cui tomba si trova proprio all’interno della struttura.

La prima apparizione di Umberto risalirebbe al 1930, in una mite notte di primavera, quando si materializzò ad un terrorizzato carabiniere di guardia al Pantheon.

In questa occasione, il fantasma sussurrò un messaggio alle orecchie del testimone.

Cosa gli fu riferito? Non è dato sapere, perché la guardia si è sempre rifiutata di svelarlo.

Quel che è certo, è che abbia lasciato un messaggio di carattere politico.

Ai più scettici, il carabiniere mostrò un lembo di camicia bruciata, pare, dal contatto della mano del monarca in un gesto di ringraziamento e commiato.

Bianca

Palazzo Spinelli di Laurino, una dimora storica, oggi molto degradata, in passato appartenne al poeta Giovanni Pontano (1429 – 1503) e nel XVIII secolo fu acquistata dalla famiglia Spinelli, duchi di Laurino.

Il dramma della giovane Bianca contribuisce ad avvolgere Palazzo Spinelli di Laurino in un alone di mistero, e incute paura a chiunque oltrepassi il numero 362 di via dei Tribunali a Napoli.

Nello scalone dell’edificio, in molti affermano di aver visto il fantasma di Bianca, damigella della nobildonna Lorenza Spinelli. Una donna crudele e cinica, che, come si narra, non degnava il consorte della benché minima considerazione.

Quando un giorno il marito, poco prima di partire per la guerra, entrò nella camera della moglie per un affettuoso saluto, lei lo trattò male. Il principe, piuttosto seccato, mentre si allontanava incrociò lo sguardo dolce della bella Bianca, intenta a pettinare la sua signora.

La compassionevole scena, riflessa nello specchio della stanza, insospettì Lorenza.

Quando il marito fu distante, presa dalla gelosia la donna fece prima imprigionare Bianca nelle carceri e poi col più atroce dei supplizi, ordinò di murarla ancora viva nella sua stanza.

La povera Bianca, innocente e indifesa, pronunciò queste ultime parole: “Famme pure murà viva, ma in allegrezza o in grannezza tu me vidarraje.”

IL FANTASMA

Il fantasma di Bianca, che non ha mai abbandonato il palazzo, appare come presagio di gioie o disgrazie: lo spettro ha una veste bianca e, nel caso di sventure si presenta con il volto coperto da un velo nero.

Lo spirito di Bianca, murata ancora viva in una delle numerose stanze del palazzo, cerca ancora di vendicarsi, e ogni sua manifestazione spesso è seguita da un tragico evento.

Costanza Falconieri

Costanza Falconieri nacque a Roma intorno all’anno 1764.

Era figlia di don Mario, nobile romano coscritto e della contessa Giulia Millini. Colta e graziosa, la ragazza appena quindicenne, fu designata da Pio VI come sposa del nipote Luigi, figlio di sua sorella Giulia Braschi e del conte Girolamo Onesti di Cesena.

Secondo una voce raccolta da J. W. Goethe, la madre era stata in gioventù l’amante del futuro papa.

Questo rapporto dovette avere il suo peso nella scelta, che comunque si rivelò assai felice, dimostrando Costanza di saper rappresentare, nella società mondana, la casata del pontefice regnante.

Il 4 giugno 1781, nella cappella Sistina del palazzo vaticano, Pio VI congiunse in matrimonio la Falconieri e Luigi Braschi Onesti, duca di Nemi.

Le nozze vennero festeggiate come un vero avvenimento di Stato: nobili, principi e cardinali fecero a gara nell’offrire doni propiziatori agli sposi.

Si tramanda che Costanza, ebbe diverse esperienze extraconiugali, tra cui, una accertata con il poeta Vincenzo Monti che le dedicó diversi versi.

Nonostante tutto la Falconieri rimase tra le dame più ammirate della città per tutto il pontificato di Pio VII (1800-1823).

IL FANTASMA

La giovane rampolla andò in sposa a Luigi Braschi Onesti nel 1781 e da allora divenne una vera e propria first Lady in grazia del prestigioso ruolo sociale del marito, nipote del papa reggente Pio VI.

Le cronache del tempo ce la dipingono bruna e piccola di statura, ma ben proporzionata e soprattutto elegante e raffinata nei modi.

Altre cronache, poi, si dilungano sui suoi presunti amori extraconiugali, a quanto pare continuativi e talvolta accertati come nel caso del poeta e letterato Vincenzo Monti che fu perfino segretario del suo illustre consorte.

Dunque non ci sorprende che questa anima ‘piena di vita’ si aggiri nel bel palazzo che la vide felice e infedele al tempo dei fasti dei Braschi.

C’è anche chi giura di averla incontrata, qualche anno fa, tra le stanze buie del mezzanino al secondo piano dell’edificio.

Chissà, magari tornerà presto a mostrarsi, incuriosita anche lei dai molti cambiamenti in atto nel Museo di Roma.

Gaio Giulio Cesare

Gaio Gulio Cesare fu uno dei personaggi che più hanno segnato la storia della città di Roma.

Grazie alla sua dittatura ci fu un primo avvicinamento alla monarchia, inoltre fu un grande condottiero che guidò i suoi eserciti alla conquista della Germania, Britannia, Gallia, Grecia, Egitto e Ponto.

Della sua dittatura due sono i gesti estremamente forti attraverso i quali viene ricordato, il primo episodio si svolse in una mattinata, qualcuno aveva posto ai piedi della statua di Cesare un diadema, simbolo della regalità romana, due tribuni della plebe lo accusarono di volersi proclamare re di Roma, Cesare convocò immediatamente il senato e accusò i due tribuni di aver messo loro il diadema per incastrarlo e creare scompiglio nel popolo, per punizione gli tolsero la carica di tribuni.

Il secondo episodio, il più importante, è ricordato come l’episodio dei Lupercali, durante questa festa romana, Licino gli depose un diadema d’oro sui piedi, il popolo esortò Lepido di incoronare Cesare, quest’ultimo esitò, allora Cassio gli pose il diadema sulle ginocchia senza il consenso di Cesare, Antonio infine lo mise sulla testa del dittatore salutandolo come re, Cesare lanciò via il diadema e disse al popolo che il suo nome era Cesare e non Re e ordinò che fosse posto sul capo della statua di Giove.

IL FANTASMA

Secondo la leggenda, le sue ceneri vennero conservate nella sfera di piombo posta sulla sommità dell’obelisco che domina Piazza San Pietro.

Nel 1585, però, Papa Sisto V chiese di forare la sfera per smentire questa storia.

Si scoprì che la sfera non era adatta a contenere ceneri, ma la sua apertura, secondo la leggenda, causò la liberazione dell’anima del dittatore.

Da quel giorno il suo fantasma appare in vari posti della Città Eterna, specialmente nei pressi del Colosseo.

I Diavoli del Pantheon

Il Pantheon (“tempio di tutti gli dei”) è un edificio della Roma antica, costruito come tempio dedicato alle divinità di tutte le religioni.

I Romani lo chiamano amichevolmente la Rotonna (“la Rotonda”), dal nome della piazza antistante.

All’inizio del VII secolo il Pantheon è stato convertito in chiesa cristiana, chiamata Santa Maria ad Martyres, il che gli ha consentito di sopravvivere quasi integro alle spoliazioni apportate agli edifici della Roma classica dai papi.

È l’unico tempio pagano sopravvissuto alle distruzioni degli uomini e alla furia degli elementi (le acque del Tevere lo invadevano regolarmente fino al 1879): perciò, Bonifacio IV, salito sul trono papale nel 608, riuscì a ottenere dall’imperatore Foca la cessione di questo splendido monumento che si adattava benissimo alla trasformazione in chiesa cristiana.

LA LEGGENDA

La leggenda narra che il Pantheon una volta divenuto Chiesa cristiana avvenne la fuga di sette demoni, sette come le divinità pagane che avevano abitato il tempio.

Sempre secondo le credenze popolari, l’apertura in cima alla cupola inizialmente non esisteva, ma sarebbe dovuta ad un grosso diavolo che, scappando dal tetto, avrebbe fatto saltare a colpi di corna la pigna dorata che chiudeva il foro.

L’aureo reperto sarebbe precipitato sulla piazza dietro il monumento, che per questo avrebbe preso il nome di piazza della Pigna.

Medioevale, e diabolica, è pure la leggenda sull’origine del fossato che corre attorno al Pantheon.

Baialardo, mago assai famoso a Roma, ottiene da Satana, in cambio dell’anima, il Libro del Comando, supremo e segreto manuale di arti malefiche.

Che, pentito per lo scellerato patto, usa le arti apprese dal magico libro per volare in un solo giorno in pellegrinaggio fino a Gerusalemme e tornare a Roma.

Ma al Pantheon trova ad attenderlo Satana che reclama l’anima in rispetto dell’accordo. Il mago, però, conoscendo la passione dei diavoli per le noci, gliene offre alcune da mangiare.

Il maligno si distrae e Baialardo si salva rifugiandosi dentro il tempio, dove prega sinceramente pentito.

Allora il diavolo, inferocito per esser stato imbrogliato, comincia a girare furiosamente intorno al tempio, producendo con i suoi zoccoli il fossato.