Le Donne di Roma
LINA CAVALIERI
Fu la donna che D’Annunzio definì “la massima testimonianza di Venere in Terra” si chiama Lina Cavalieri, e la sua è una favola che, durante la propria epoca, incantò il mondo.
Lina Cavalieri nacque il giorno di Natale del 1874 a Roma, Rione Trastevere, da una modesta famiglia e per questo fu chiamata Natalina ma, da tutti, sarà conosciuta come Lina.
Già da giovanissima dimostrò di avere una notevole voce e la mamma le fece prendere lezioni di canto da un maestro di musica, vicino di casa, che si offrì di farlo a titolo gratuito. Quel maestro però ne approfittò anche per sedurla per cui Lina rimase incinta del suo unico figlio Alessandro che allevo’ da sola e che reputó sempre solo suo.
A 15 anni debuttò a teatro, uno di quelli di Piazza Navona, e diventò sempre più popolare sia per la bella voce sia per la grazia delle sue fattezze, che incanteranno, negli anni a venire, tutto il mondo occidentale.
Dopo circa 6 anni nei quali si divise fra Roma e Napoli, la Cavalieri fece il primo grande salto, giungendo a Parigi dove si esibì alle Folies Bérgères, diventando istantaneamente uno dei simboli della Belle époque franceseRaggiunta una popolarità di livello mondiale, dal 1900 in poi si dedicò alla lirica, giungendo a calcare le scene dei maggiori teatri del mondo.
Durante i primi anni del ‘900 affiancò leggende dell’opera lirica come Enrico Caruso e Francesco Tamagno, anche se le sue qualità come soprano non erano certo paragonabili a quelle degli illustri connazionali.
La Cavalieri arrivò al Metropolitan di New York e lì divenne la diva internazionale di maggior fama del periodo, grazie all’incantevole bellezza e al fascino di donna focosa e mediterranea.
Nel 1914, a ormai 40 anni, abbandonò la scena teatrale per dedicarsi al cinema. In tutto interpretò otto film sino al 1920, raggiungendo lo status di diva cinematografica.
Il 9 Marzo del 1944, morì a Firenze sotto i bombardamenti degli alleati americani.
La leggenda della Cavalieri deve molto anche alla vita sentimentale, che fu tutto tranne che monotona. La “donna più bella del mondo” ricevette un numero incalcolabile di offerte di matrimonio, che la portarono alle soglie dell’altare per ben cinque volte.
Oltre ad alcune registrazioni d’epoca (ne trovate una sotto) della Cavalieri ci rimangono numerose immagini e fotografie, ma anche la grandissima opera del famoso designer Piero Fornasetti, che la elesse a proprio marchio di fabbrica di una produzione di oggetti davvero innumerevole.
La sua vita fu raccontata nel film del 1955 “La Donna più bella del mondo”, con Vittorio Gassmann e Gina Lollobrigida, per la regia di Robert Z. Leonard, che riportò alla celebrità mondiale la diva italiana.
Fillide Melandroni
Fillide Melandroni fu amica di Caravaggio e posò per lui come modella in molte delle sue composizioni come ad esempio:
- Il Ritratto di Cortigiana;
- Santa Caterina d’Alessandria;
- Marta e Maria Maddalena;
- Giuditta e Oloferne.
Melandroni nacque a Siena nel 1581. Nel 1593, in seguito alla morte del padre Enea, si trasferì a Roma con sua madre Cinzia e suo fratello Silvio.
La famiglia fu accompagnata dall’amica di Fillide Anna Bianchini e dalla sua famiglia. Le ragazze iniziarono, arrivate a Roma, a lavorare come prostitute.
Melandroni e Bianchini furono arrestate nell’aprile 1594 per essere uscite dal bordello dopo il tramonto e furono sospettate di adescamento.
Presto Melandroni divenne una delle donne più ricercate di Roma.
Risiedette in una casa all’Ortaccio dove ospitò molti clienti facoltosi, tra cui il banchiere e collezionista d’arte Vincenzo Giustiniani, mecenate di Caravaggio.
Ebbe una relazione con il rampollo Ranuccio Tomassoni, il quale si ipotizza sia stato il suo protettore. L’11 febbraio 1599, a seguito di una denuncia per una festa rumorosa e per presenza di armi, la coppia fu arrestata.
La diocesi di Roma la definì una cortigiana scandalosa nel 1599 dopo che la donna rifiutò il sacramento. Nello stesso anno fu arrestata per possesso di un’arma che le aveva regalato Tomassoni.
Alla fine del 1600, Melandroni fu denunciata alla polizia per aver aggredito con un coltello un’altra cortigiana di nome Prudenza Zacchia, dopo averla sorpresa in intimità con Tomassoni.
Nel 1612 fu costretta a lasciare Roma dalla famiglia del poeta e librettista veneziano Giulio Strozzi, suo amante dell’epoca, al quale lasciò in eredità un suo ritratto dipinto da Caravaggio per mezzo di un testamento redatto nell’ottobre 1614
Melandroni morì nel 1618 all’età di trentasette anni. La Chiesa si rifiutò di concederle una sepoltura secondo rito cristiano.
L’esterno della chiesa di San Lorenzo accoglie la sepoltura della cortigiana Fillide Melandroni, morta nel luglio 1618 e precedentemente residente “alla strada de Borgognoni”.
Margherita Luti
Margherita Luti era la figlia di Francesco Senese, un fornaio nel quartiere di Trastevere a Roma.
Il padre è stato identificato con Francesco Luti, soprannominato Senese perché originario di Siena.
Il cognome della ragazza viene riportato anche nelle varianti Luzi o Luzzi.
Per via della professione paterna, un fornaio di contrada Santa Dorotea, in rione Trastevere, Margherita era nota come la Fornarina.
La ragazza si presume sia stata l’amante del pittore Raffaello Sanzio, di cui parla il Vasari a proposito del ritratto della Velata.
In quanto tale potrebbe essere stata la modella di alcuni altri dipinti raffaelleschi, tra cui:
- La Fornarina;
- La Madonna Sistina;
- La Galatea nell’Affresco Trionfo di Galatea.
Nell’ Ottocento Margherita suggestionò l’immaginario romantico, venendo definita musa ispiratrice del pittore. Nel 1897 lo studioso Antonio Valeri scoprì un documento, che attestava il ritiro nel monastero di Sant’Apollonia a Trastevere di di Margherita, avvenuto pochi mesi dopo la morte di Raffaello.
Il documento recita:
«al dì 18 agosto 1520, oggi è stata ricevuta nel nostro conservatorio Madama Margherita vedoa figliuola del quodam Francesco Luti di Siena.»
Vissuta a cavallo tra il XV ed il XVI secolo, non si conoscono con esattezza di lei né la data di nascita né quella di morte. Si narra che entrata in monastero alla morte di Raffaello, sarebbe scomparsa di lì a poco.
Giuditta Tavani Arquati
Giuditta nasce a Roma il 30 aprile 1830, nell’ospedale Fatebenefratellisull’Isola Tiberina. Il padre, Giustino Tavani, fu un patriota della prima Repubblica Romana del 1798-1799, che dopo aver scontato una condanna nelle carceri pontificie va a vivere a Venezia per alcuni anni e poi ritorna a Roma.
Giuditta, anche se è religiosa, cresce in un ambiente familiare con saldi principi laici e repubblicani.
Il 22 luglio 1844, a soli quattordici anni, si sposa, nella Parrocchia romana di San Crisogono, nel rione di Trastevere, con Francesco Arquati, un commerciante di lana, conosciuto nel magazzino di stoffe del padre.
Nell’estate 1867 Garibaldi promuove la Campagna dell’Agro romano per la liberazione di Roma, per abbattere il potere temporale della Chiesa e liberare Roma dal governo papalino, alla quale aderiscono con entusiasmo circa 8.000 Volontari, che varcano il confine del Regno d’Italia con lo Stato pontificio.
Per dirigere l’insurrezione, Garibaldi invia a Roma, sotto falso nome, il patriota Francesco Cucchi, che riunisce alcune decine di patrioti, tra i quali c’è Giuditta, che è uno degli animatori ed organizzatori del gruppo. ll centro della cospirazione è il lanificio di proprietà del patriota Giulio Ajani , in Via della Lungaretta 97, nel rione popolare di Trastevere, in cui è nascosto l’arsenale dei congiurati e dove si fabbricano le munizioni per i fucili e le pistole
Arrivò, però, una pattuglia di zuavi giunta da via del Moro attaccò la sede del lanificio.
I congiurati cercarono di resistere al fuoco. In poco tempo, però, le truppe pontificie ebbero la meglio e riuscirono a farsi strada all’interno dell’edificio.
Alcuni congiurati riuscirono a fuggire, mentre altri furono catturati. Sotto il fuoco rimasero uccise 9 persone, tra cui Giuditta Tavani Arquati, incinta del quarto figlio, il marito e il loro giovane figlio.
La figura di Giuditta Tavani Arquati divenne simbolo della lotta per la liberazione di Roma e per anni gli abitanti di Trastevere e le associazioni laiche e repubblicane commemorarono l’eccidio.
Il 9 febbraio 1887 fu fondata l’Associazione democratica Giuditta Tavani Arquati, che fu sede di numerose iniziative laiche e anticlericali.
L’associazione fu sciolta nel 1925 dal Fascismo e, in seguito, ricostituita dopo la Liberazione.
Grazie agli sforzi dell’Associazione e di altre istituzioni il 1º novembre 1909 piazza Romana, che si trovava nelle vicinanze del lanificio di via della Lungaretta, viene rinominata Piazza Giuditta Tavani Arquati.
Trastevere ricorda la patriota romana con una lapide posta accanto all’ex lanificio Ajani.
L’episodio dell’eccidio al lanificio Ajani è citato nel film di Luigi Magni, In nome del Papa Re e nel film di Alfredo Giannetti, Correva l’anno di grazia 1870.
La salma di Giuditta Tavani Arquati riposa in una tomba a tumulo sulla collinetta prospiciente l’Ossario del Cimitero del Verano a Roma.
Anna Magnani
Anna Magnani nacque a Roma il 7 marzo 1908 presso Porta Pia nell’odierno quartiere Nomentano.
Appena nata venne affidata definitivamente alle cure della nonna materna Giovanna Casadio, e crebbe in via San Teodoro, tra il Campidoglio e il Palatino.
Anna intraprese ben presto lo studio del pianoforte, per poi dedicarsi alla recitazione.
Nel gennaio 1927 iniziò a frequentare con Paolo Stoppa l’Accademia nazionale d’arte drammatica.
Il suo debutto cinematografico avvenne nel film La cieca di Sorrento di Nunzio Malasomma, nonostante nel 1928 fosse già apparsa, in un ruolo marginale, nella pellicola Scampolo di Augusto Genina.
Dopo numerosi film in cui interpretava parti di cameriera o cantante, riuscì a imporsi per le sue eccezionali doti di interprete spiccatamente drammatica.
Fu Vittorio De Sica a offrirle per la prima volta la possibilità di costruire un personaggio non secondario, quello di Loretta Prima, artista di varietà, nel film Teresa Venerdì (1941).
Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. C’ho messo una vita a farmele!
Recitò nell’ avanspettacolo di Totò e interpretò il ruolo della verduraia romana in Campo de’ Fiori con Aldo Fabrizi.
Raggiunse la fama mondiale nel 1945 e vinse il suo primo Nastro d’Argento grazie all’interpretazione nel film manifesto del Neorealismo, Roma città aperta di Roberto Rossellini, con il quale instaurò una relazione sentimentale.
Il 21 marzo 1956 fu la prima interprete italiana nella storia degli Academy Awards a vincere il Premio Oscar come migliore attrice protagonista, e la prima in assoluto madrelingua non inglese, conferitole per l’interpretazione di Serafina Delle Rose nel film La rosa tatuata (1955), con Burt Lancaster.
L’attrice è sempre stata il simbolo della Roma autentica e verace, la Roma che amava e che non ha mai dimenticato nonostante la sua fama sia arrivata fino ad Hollywood dove il suo nome è inciso sulla “Walk of Fame”.
A Trastevere, nel cuore del centro storico c’è un busto dedicato a Nannarella, così affettuosamente chiamata.
Artemisia Gentileschi
Artemisia Gentileschi, figlia d’arte e artista talentuosa, fu un’importante pittrice della scuola del Caravaggio.
Fu famosa per essere stata una delle prime pittrici italiane a raggiungere una fama pari o superiore a quella comunemente associati ai pittori.
La sua appassionante storia, legata al complesso e fervente panorama artistico della Roma di inizio ‘600, è però anche legata al processo sullo stupro che la vide vittima, ma che ella ebbe il coraggio di denunciare.
Nel 1611, infatti, Artemisia venne stuprata da Agostino Tassi, collega ed amico di suo padre e l’accaduto è raffigurato nel suo celebre dipinto “Giuditta e Oloferne”.
Dopo aver violentato la ragazza Tassi arrivò persino a blandirla con la promessa di sposarla, così da rimediare al disonore arrecato.
All’epoca vi era la possibilità di estinguere il reato di violenza carnale qualora fosse stato seguito dal cosiddetto «matrimonio riparatore», contratto tra l’accusato e la persona offesa: d’altronde, all’epoca, si pensava che la violenza sessuale ledesse una generica moralità, senza offendere principalmente la persona, nonostante questa venisse coartata nella sua libertà di decidere della propria vita sessuale
Artemisia cedette dunque alle lusinghe del Tassi e si comportò more uxorio, continuando a intrattenere rapporti intimi con lui, nella speranza di un matrimonio che mai arriverà.
Orazio, dal canto suo, tacque sulla vicenda, nonostante Artemisia l’avesse informato sin da subito.
Fu solo nel marzo del 1612, quando la ragazza scoprì che Tassi era già coniugato, e quindi impossibilitato al matrimonio, che Orazio Gentileschi ribollì per l’indignazione e, nonostante i vincoli professionali che lo legavano al Tassi, indirizzò un’infuocata querela a papa Paolo V per sporgere denuncia al suo perfido collega, accusandolo di aver deflorato la figlia contro la sua volontà.
Fu così che ebbe inizio la vicenda processuale che terminò con la condanna di Agostino Tassi per «sverginamento» e, oltre a una sanzione pecuniaria, venne condannato a cinque anni di reclusione o, in alternativa, all’esilio perpetuo da Roma, a sua completa discrezione.
Com’è prevedibile, lo smargiasso optò per l’allontanamento, anche se non scontò mai la pena: egli, infatti, non si spostò mai da Roma, siccome i suoi potenti committenti romani esigevano la sua presenza fisica in città. Ne conseguì che la Gentileschi vinse il processo solo de iure e, anzi, la sua onorabilità a Roma era completamente minata: erano molti i romani a credere ai testimoni prezzolati del Tassi e a ritenere la Gentileschi una «bugiarda che va a letto con tutti».
Artemisia fu una vera dura, sfidò le convenzioni del tempo ed è oggi ricordata come un’artista di primo piano nella storia dell’arte italiana.
Livia Drusilla
Livia Drusilla Claudia nacque a Roma il 30 gennaio del 58 a.c. da Marco Livio Druso Claudiano e la moglie Alfidia. Il diminutivo “Drusilla” suggerisce che fosse la seconda figlia della coppia.
All’età di sedici anni, nel 42 a.c., sposò il cugino patrizio Tiberio Claudio Nerone, il quale combatteva assieme a Claudiano nel partito dei congiurati, comandato da Gaio Cassio Longino e da Marco Giunio Bruto, in lotta a sua volta contro Ottaviano e Marco Antonio.
Nel 40 a.c. la famiglia di Livia fu costretta ad abbandonare l’Italia peninsulare, per evitare la proscrizione dichiarata da Ottaviano, e raggiunse prima la Sicilia, sotto il controllo di Sesto Pompeo, e poi la Grecia.
Quando fu decretata una amnistia generale dei proscritti, Livia tornò a Roma, dove conobbe Ottaviano nel 39 a.c., all’età di 18 anni, mentre Ottaviano ne aveva 24.
Nel 38 a.C., Livia e Ottaviano si unirono in matrimonio. La storia ha tramandato che Ottaviano si innamorò subito di Livia, al primo incontro. In realtà è possibile che il loro rapido matrimonio fosse suggerito da convenienze politiche. Di fatto Livia e Ottaviano rimasero sposati per oltre 50 anni, anche se dalla coppia non nacquero figli.
Livia era tenuta in grande considerazione dal marito: presso di lui presentava petizioni e forniva consigli per le sue decisioni politiche; infatti fu considerata la prima imperatrice donna dell’Impero Romano.
Nel 31 a.C. Ottaviano divenne il padrone incontrastato di Roma: è lui ad iniziare la transizione dalla Repubblica all’Impero. Livia, modello per le matrone romane, non indossava gioielli costosi né vestiti sgargianti, si prendeva cura personalmente della casa e del marito, cucendogli persino i vestiti, e fu sempre leale e premurosa verso di lui, malgrado le voci sulle avventure galanti di Augusto
Ovidio descrisse Livia come una Venere col volto di Giunone. Nelle numerose statue che la raffigurano, Livia, nonostante il rango, non ha gioielli né vesti lavorate.
La sua lunga vita, lunghissima per l’epoca, si svolse infatti all’insegna della compostezza e della moderazione, come del resto lo stesso Augusto.
Livia in effetti era bella ma non bellissima, con zigomi larghi, occhi grandi, bocca piccola e zigomi pronunciati, anzi sembra avere un’espressione un po’ spenta, o almeno timida. Ma spenta non era, perchè mai imperatrice fu più amata di lei, dal popolo e dal suo imperatore. L’imperatrice Livia, la consigliera di Augusto, fu dal popolo adorata in vita e divinizzata dopo la morte, esattamente come Augusto, che la fece rappresentare spesso nelle statue, a volte con gli attributi di divinità, in veste di Cerere o Opi.
Si narra che Livia suggerisse come segreto di longevità un buon bicchiere di vino a pasto. Livia era morigerata e non mescolava vini, usando una sola “etichetta”, il Pucino, prodotto da un vitigno selezionatissimo, coltivato non lontano dalle foci del Timavo e che gli enologi, dopo molte ricerche, hanno scoperto trattarsi del nostro prosecco.
Elsa Morante
Elsa Morante nacque a Roma il 18 agosto 1912, al n. 7 di via Anicia, nel quartiere popolare di Testaccio.
Dimostrò fin da giovanissima una notevole attitudine alla scrittura, cominciando a comporre poesie, fiabe e racconti.
Intorno gli anni ’30, risale l’incontro con Alberto Moravia, scrittore già affermato nel panorama italiano grazie al romanzo Gli Indifferenti, pubblicato nel 1929 e acclamato dalla critica. Si sposarono il 14 aprile 1941, dando inizio a una relazione di fatto inscindibile dalla letteratura: Elsa Morante e Alberto Moravia frequentavano scrittori e intellettuali tra i più importanti dell’epoca, quali Bassani, Bertolucci, Saba e Pasolini, scrivevano romanzi destinati a finire nel canone letterario italiano, erano coniugi e colleghi, complici e competitivi.
Nel 1943, i due si rifugiarono a Fondi, nella provincia di Latina, per sfuggire alle rappresaglie belliche; in questo periodo, che ispirò a Moravia La ciociara, la Morante era alle prese con quello che sarebbe diventato il suo primo romanzo, Menzogna e sortilegio, dapprima intitolato Storia di mia nonna.
Menzogna e sortilegio è la storia di Anna, figlia di un nobile decaduto e innamorata di Edoardo, un ricco cugino, con il quale intesse una relazione morbosa, fatta di maltrattamenti e capricci da parte di lui. Francesco, amico di Edoardo, si innamora di Anna perdutamente, e comincia a maltrattare Rosaria, la prostituta con cui aveva una relazione e che lo ama teneramente. Edoardo scompare nel nulla e Anna finisce con lo sposare Francesco, dal quale ha una figlia, Elisa, che verrà accolta da Rosaria dopo la morte dei suoi genitori. Ed è proprio lei, Elisa, a narrare la storia: giunta a termine l’ingarbugliata vicenda sentimentale da cui lei stessa è nata, la ragazza racconta i vent’anni di guazzabuglio, amore, bugie e follie che l’hanno messa al mondo.
Pubblicato nel 1957, L’Isola di Arturo è l’opera più conosciuta di Elsa Morante e quella che valse alla scrittrice lo Strega, che non era mai stato assegnato a una donna prima di allora
Ambientato sull’Isola di Procida, dove la Morante visse per un periodo insieme a Moravia, il romanzo racconta di un ragazzo, Arturo, orfano di madre, il cui mondo finisce ai confini dell’isola: tutto ciò che si colloca oltre, al di là, lo conosce solo tramite i libri e gli atlanti che usa per immaginare i viaggi che farà un giorno, in terre altre, che, per il momento, rimangono mitologiche ai suoi occhi.
Allo stesso modo, Arturo ha sviluppato un’idolatria nei confronti del padre, che vede raramente perché spesso in viaggio e, proprio per questo, il ragazzino ho imparato a immaginarsi il padre come un eroe tra i più grandi che abbiano mai messo piede sulla terra, un’illusione che non può aver altra vita se non breve. Tra prime pulsioni amorose, gelosie fraterne, un padre assente, omosessualità malcelate e segreti inconfessabili, il romanzo è la storia di una catena di eventi che spingeranno Arturo fuori dal candore dell’infanzia, portandolo infine a lasciare l’Isola. Dal libro, nel 1962, fu tratto l’omonimo film di Damiano Damiani.
Aracoeli fu l’ultimo romanzo della Morante e fu durante la scrittura di questo libro che Elsa si fratturò un femore e cominciò a soffrire di forti dolori alla gamba che le rendevano impossibile mantenere il suo normale stile di vita, costringendola a letto: una volta pubblicato il romanzo, la scrittrice tentò il suicidio e fu salvata per un soffio dalla sua governante, ma morì d’infarto due anni dopo, nel 1985.
Flavia Giulia Elena
Flavia Giulia Elena, nacque nel 248 o nel 250 in un centro della Bitinia, probabilmente Drepanum che in suo onore successivamente venne rinominato Helenopolis dal figlio, l’imperatore Costantino, Elena proveniva da una famiglia di umili origini. Il padre era pagano e proprietario di un’osteria con annessa stalla (stabulum) per dare ricovero agli animali. Le fonti la definiscono stabularia, termine che potrebbe essere inteso in due modi: addetta alla pulizia e alla manutenzione della stalla, oppure locandiera che si occupava di servire i clienti e di intrattenerli.
Flavia Giulia Elena conobbe Costanzo Cloro, il padre del futuro imperatore Costantino, probabilmente nel 270 durante una campagna militare alla quale lui partecipò, organizzata dall’imperatore Aureliano per piegare le spinte autonomiste del Regno di Palmira. Tra i due si instaurò un legame molto forte, ma la differente condizione sociale, lei plebea, lui graduato dell’esercito romano, non permise loro di sposarsi, sebbene le fonti cristiane parlino di un legame matrimoniale che, in base al costume dell’epoca, risulta alquanto improbabile. I due convissero per 23 anni in una condizione di concubinato e Flavia Giulia Elena dette alla luce un figlio maschio, Costantino, nel 274.
Costanzo Cloro però dovette abbandonarla per sposare una donna altolocata, Teodora, figliastra dell’imperatore, quando Diocleziano lo nominò Cesare nel sistema tetrarchico da lui ideato.
Per ragioni di stato, quindi, Costanzo Cloro fu costretto a rinunciare a quella donna che gli era stata fedele compagna per più di un ventennio e che lui portò sempre nel cuore, se è vero che in punto di morte ne pronunciò il nome. Ma lei fu costretta non solo a rinunciare all’uomo di cui era innamorata, e al quale rimase fedele per sempre visto che non ebbe altre relazioni, ma anche al figlio dal quale venne allontanata, poiché l’ordine dell’imperatore era che l’erede di Costanzo Cloro crescesse alla corte imperiale e ricevesse un’educazione degna del suo futuro regale: Flavia Giulia Elena non vide più il figlio dal 293, anno del matrimonio fra Costanzo Cloro e Teodora, fino al 306, quando Costantino venne nominato imperatore.
Il profondo legame che univa Costantino alla madre, sottolineato anche dal biografo dell’imperatore Eusebio di Cesarea, non venne compromesso dalla distanza. Non appena ebbe libertà d’azione, il nuovo imperatore si riavvicinò alla madre invitandola a risiedere nel palazzo di Treviri; ma lei rifiutò, vista la riluttanza della matrigna di Costantino a vivere sotto lo stesso tetto con la donna che l’aveva sempre resa invisibile agli occhi del marito, rimasto profondamente innamorato di Elena fino alla morte.
Flavia Giulia Elena dal punto di vista religioso fu inizialmente vicina all’arianesimo, una corrente interna al cristianesimo, che venne successivamente dichiarata eretica, in base alla quale la natura di Cristo doveva essere intesa non in chiave divina, ma umana. La conversione di Elena al cristianesimo è molto controversa: alcuni sostengono che fu il figlio a convincerla, altri propendono per il contrario. Quello che sappiamo con certezza è che Costantino non si battezzò e la sua redenzione in punto di morte non è per nulla accertata; al contrario Flavia Giulia Elena ricevette il sacramento del battesimo.
Quando Costantino si stabilì a Roma, lei lo seguì e venne insignita del titolo di Augusta, ma anche questa volta preferì non risiedere con il figlio e la corte imperiale, trasferendosi presso il fundus Laurentus, nella parte sud-orientale della città, dove sorse anche un palazzo, il palatium Sessorianum, e una chiesa dedicata ai santi Marcellino e Pietro che lei stessa fece edificare
Oltre al titolo, ricevette dal figlio altri onori, fra i quali essere raffigurata sulle monete dove la sua immagine simboleggiava la Securitas, la sicurezza dello Stato.
Tra il 326 e il 328, alla veneranda età di ottant’anni, Flavia Giulia Elena si recò in pellegrinaggio nei luoghi del Santo Sepolcro grazie al quale avvenne il ritrovamento della Santa Croce. Flavia Giulia Elena si spense a Treviri nel 329, poco dopo il ritorno dal pellegrinaggio in Terra Santa, con accanto l’amorevole figura del figlio.
Raffaella la crociera
Forse in pochi conoscono la triste e intensa storia di Raffaella La Crociera che è custodita nella statua marmorea che si trova al quadriportico del cimitero di Verano a Roma e rappresenta una ragazzina che stringe nella mano destra un quaderno
Probabilmente però tanti si saranno soffermati a leggere che dietro le spalle della statua c’è scritto “Premio della bontà 1954”.
Negli anni Cinquanta, il nome di Raffaella La Crociera, è risuonato nelle case di tutti gli italiani e non solo. Nell’ottobre 1954 un nubifragio aveva devastato la costiera salernitana e la Rai aveva lanciato una raccolta fondi per aiutare gli alluvionati.
Anche Raffaella aveva sentito quel disperato appello d’aiuto mentre era nel suo lettino costretta a stare immobile per una malattia il lupus eritematoso cronico.
Così senza pensare al suo malessere, Raffaella si tormentava su come aiutare i bambini privati degli affetti e dei beni di prima necessità. Decise così di scrivere alla Rai dicendo che i suoi genitori erano molto poveri perché avevano speso tutti i loro averi nel vano tentativo di guarirla e lei non poteva nemmeno uscire di casa e lasciare quel letto. Non aveva denaro, ma voleva donare una sua poesia.
Alla Rai arrivò una commovente lettera che accompagnava la sua poesia “Er zinale”, termine dialettale con cui si chiama a Roma il grembiule di scuola:
Giranno distratta pe casa,
tra tanta robba sfusa,
ha trovato – ah! come er tempo vola –
er sinale de scola.
Nero, sguarcito,
un pò vecchio e rattoppato,
è rimasto l’amico der tempo passato.
Lo guarda e come se gnente fusse
a quell’occhioni spunteno li lucciconi,
e se rivede studente allegra e sbarazzina
tanto grande, ma bambina.
Lo guarda e come un’eco risente
quelle voci sommesse: Presente!
Li singhiozzi, li pianti,
li mormorii fra li banchi,
e senti, senti,
pure li suggerimenti.
Domenica 31 ottobre un commosso Giovanni Gigliozzi, nella sua rubrica radiofonica “Campo de’ Fiori”, leggeva la poesia, comunicando agli ascoltatori l’intenzione di metterla all’asta per destinarne il ricavato agli alluvionati.
La poesia divenne il fulcro di una vera e propria gara di solidarietà fino a quella, arrivata dalla Svizzera, della contessa Cenci Bolognetti, che si aggiudicò la poesia con l’offerta di mezzo milione di lire.
La piccola poetessa non riusciva a crederci, il suo sogno di aiutare la popolazione alluvionata si era avverato. Un giocattolaio romano decise di ringraziare la piccola poetessa donandole la più bella delle sue bambole. Ma purtroppo Raffaella non ebbe il tempo per giocarci.
Due giorni dopo la trasmissione la ragazza lasciava questo mondo. La bambola arrivò, ma su un cuscino di fiori bianchi. Oggi alcune scuole romane sono intitolate alla sua memoria, mentre fu per opera del senatore Ugo Angelilli, assessore capitolino alle Scuole, che La Crociera ricevette il Premio bontà “Livio Tempesta”.